Trattiamo un argomento delicato e spinoso: le implicazioni del cambio di destinazione d’uso di un immobile concesso in locazione, rispetto a quanto indicato formalmente nel contratto. Non sempre, infatti, soprattutto dalla parte del locatore, si ha la esatta percezione delle problematiche e conseguenze che può implicare.

Così recita l’art. 80 della L. 392/78:  “Se il conduttore adibisce l’immobile ad un uso diverso da quello pattuito, il locatore può chiedere la risoluzione del contratto entro tre mesi dal momento in cui ne ha avuto conoscenza (e comunque entro un anno dal mutamento di destinazione (il termine annuale è stato dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale nel 1988 ). Decorso tale termine senza che la risoluzione sia stata chiesta, al contratto si applica il regime giuridico corrispondente all’uso effettivo dell’immobile. Qualora la destinazione ad uso diverso da quello pattuito sia parziale, al contratto si applica il regime giuridico corrispondente all’uso prevalente”

L’art. 80 sopra citato è ad oggi ancora in vigore, sopravvissuto alle successive novelle in materia di locazione. La norma stabilisce che se il conduttore adibisce l’immobile ad uso diverso da quello pattuito, il locatore può chiedere la risoluzione del contratto entro il termine tre mesi dal momento in cui ha avuto conoscenza del mutamento di destinazione . Decorso tale termine senza che la risoluzione sia stata chiesta, al contratto si applica il regime giuridico corrispondente all’uso effettivo dell’immobile. Qualora la destinazione ad uso diverso da quello pattuito sia parziale, al contratto si applicherà il regime giuridico corrispondente all’uso prevalente.

Il locatore ha quindi il diritto di chiedere la risoluzione (entro tre mesi dall’avvenuta conoscenza) ma l’art. 80 citato circoscrive l’azione del locatore all’ipotesi di un mutamento di destinazione d’uso che possa definirsi “radicale” e cioè che determini una disciplina giuridica diversa da quella indicata in contratto: ad esempio, la trasformazione di un uso abitativo in un uso commerciale che comporta l’applicazione di un regime completamente diverso. Qualora il locatore, venuto a conoscenza del mutamento d’uso, non chieda la risoluzione, si applicherà il regime giuridico dell’effettivo uso dell’immobile.

L’uso effettivo dell’immobile diverso da quello indicato in contratto può assumere rilievo giuridico anche nell’ipotesi nella quale venga dimostrato l’accordo, o quanto meno la consapevolezza condivisa da locatore e conduttore, in ordine alla effettiva destinazione dell’immobile.

Pertanto se le parti tacitamente acconsentono ad un uso diverso da quello indicato formalmente, si può configurare la sussistenza di un accordo simulatorio tacito e quindi la c.d. simulazione relativa. L’accordo “dissimulato” per avere valore dovrà avere gli stessi requisiti di sostanza e di forma dell’accordo simulato e quindi, nel nostro caso, la forma scritta.

La prova per testi è però ammissibile, senza limiti,  qualora venga eccepita l’illiceità del contratto dissimulato: pertanto sarà ammissibile, ad esempio, in caso di simulazione finalizzata ad aggirare normative fiscali sulla tassazione dei canoni di locazione.

L’accordo simulatorio potrà essere contestato sia dal locatore che dal conduttore ma andrà dimostrata, in questo caso, non solo la conoscenza dell’uso effettivo dell’immobile, ma precisamente la sussistenza dell’accordo.

Qualora il mutamento di destinazione invece sia del tutto sconosciuto al locatore la circostanza non avrà rilievo giuridico rimanendo circoscritta, così come l’intento elusivo, nella sfera di volontà unilaterale del conduttore.

È quindi evidente che il locatore debba prestare molta attenzione a come si sviluppa il rapporto di locazione con il conduttore, così come deve avere ben presente la portata dei rischi che può derivare dal voler utilizzare una forma di locazione non attinente all’effettivo uso dell’immobile.